La morte dell’arte

Una cosa è pagare per l’arte (che sicuramente migliora la vita degli artisti) una cosa è fare arte per denaro.

Dire che cosa è l’arte non si può. Si può dire che cosa l’arte non sia però. L’arte non è maestria e abilità (come diceva Schopenhauer quello è talento, ma non è genio). L’arte non è verosimiglianza (con buona pace del Vasari). L’arte non è provocare emozioni (si possono provocare in tanti modi e non tutti rispettabili). L’arte non è arbitraria (altrimenti tutto sarebbe arte, cioè nulla). L’arte non è istituzionale (perché sarebbe espressione del potere politico di turno). L’arte non è sicuramente il prezzo che i mercanti di arte riescono a strappare ai loro committenti in cerca di investimenti.

L’arte è, in gran parte, un mito nato nel Rinascimento quando le grandi famiglie nobili cercavano qualcosa per giustificare la loro posizione privilegiata senza doversi inginocchiare all’altra grande fonte di potere e autorità: la religione.

E infatti la concezione moderna dell’artista nasce con Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori scritta nel 1568 da un mediocre pittore e buon architetto, Giorgio Vasari, sul modello delle vite dei santi.

L’artista diventa così, nella nostra cultura occidentale, una specie di santo laico che invece di fare miracoli spinto dallo spirito santo, realizza opere d’arte grazie alla sua (divina?) ispirazione. Notate che nel titolo del libro fondativo di questa concezione dell’artista, la parola artista non c’è – pittori, scultori e architettori, ma artisti no. Come mai? Perché fino a quel momento si identificava la persona con quello che faceva e non con una sua presunta magica qualità che gli avrebbe consentito di realizzare l’arte con l’A maiuscola.

Non per caso il nome degli artisti delle civiltà precedenti al Rinascimento è spesso ignoto. In un’epoca priva di aure religiose, l’arte svolge un ruolo privilegiato, riempie lo spazio vacante lasciato dal sacro. Come il divino è invisibile, così anche l’artistico è invisibile. Non si può vedere. Se si potesse vedere, sarebbe riproducibile e quindi dozzinale (riferimento obbligato a questo punto è Walter Benjamin). L’arte viene così legata a una misteriosa aura che è praticamente analoga alla pretesa dei cortigiani dell’imperatore, nella favola di Hans Christian Andersen: qualcosa che non si può dire di non vedere, pena l’espulsione dalla corte dei favoriti del monarca.

I vestiti nuovi dell'imperatore, una fiaba di Christian Andersen ...

L’arte con la A maiuscola è come la nobiltà, una invisibile giustificazione per essere distinti. E così si va al museo come si andava in chiesa, per sentirsi migliori degli altri. E come chi si perdeva in estasi di fronte alle statue dei santi, così i fedeli si sentono in obbligo di provare (o dire di provare) qualcosa di fronte alle opere d’arte.
Questa arte sta al denaro come la religione sta alle mitre dorate dei sacerdoti. E si traduce in cattedrali dette musei che hanno la principale funzione di raccogliere denaro sfruttando il desiderio dei fedeli di sentirsi parte della comunità degli eletti.

Esiste però un’altra forma d’arte, che è l’espressione della libera volontà delle persone; un’arte che non viene fatta per denaro o per riconoscimenti sociali; un’arte che è l’espressione estetica della libertà di ciascuno di noi. Questa arte non finisce nei musei (se non in casi fortunati) e non viene fatte per essere venduta. Questa arte è la forma visibile dell’esistenza di ciascuno di noi: è il mondo che si manifesta in forme nuove attraverso quelle persone così aperte da lasciare che nuovi mondi trovino la loro espressione.

Quest’arte non ha alcuno scopo tranne manifestare se stessa attraverso di noi.

L’arte non ha prezzo, ma ha valore. Pensare di poter valutare l’arte sulla base dei biglietti venduti o del numero dei visitatori è un errore di categorie. Per queste persone l’entrata nella chiesa della cultura è un atto simbolico, ma quello che trovano è del tutto insignificante. Tanto varrebbe sostituire le opere del Botticelli con fotografie della Ferragni: la gente andrebbe comunque (per un po’), i biglietti sarebbero venduti, e la funzione materiale della macchina museale (muovere persone per comprare i biglietti) soddisfatta. Se l’arte è solo mercato, facciamo direttamente quello. Ma non si può farlo in modo così scoperto perché si rivelerebbe l’inganno e il pubblico sparirebbe.

Il pubblico ha bisogno di essere ingannato, di credere di vedere qualcosa che non vede, che chiama Arte con la A maiuscola.

E tuttavia nella nostra tradizione culturale e storica abbiamo anche avuto momenti felici in cui i pittori, gli scultori e gli architettori hanno dato spazio a nuovi mondi, realizzando momenti di valore. Questo valore non è quantificabile, altrimenti non sarebbe valore. Che cosa è il valore di un’opera d’arte? È la capacità di un’opera di contenere in sé il suo proprio criterio di esistenza. Il valore è venire al mondo, è l’esistenza. Per dirla con Spinoza, “è l’esperienza dell’eternità nell’esistenza”. E un oggetto artistico dovrebbe avere questa proprietà.

Come si lega questo con il denaro? Nel migliore dei casi, accidentalmente. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’arte che è espressione estetica della libertà della persona, quando diventa schiava del profitto o, peggio, finalizzata a produrre utile, non è più libera è quindi non è più arte.

Quando si dà un prezzo all’arte, quando si pensa che l’arte abbia un fine utile (quale che sia), l’arte non è più arte.

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